Australia’s most easterly point
Non era necessario arrivare al “Punto più ad Est dell’Australia” per capire che il nostro amore era giunto ad un bivio. Lo sapevamo fin troppo bene dopo un anno passato tra alti e bassi, tra gioie e dolori. Avevamo ignorato, tuttavia, la sua condizione fino a quel momento per mille motivi futili, per paura, per incapacità, per la poca maturità da parte di entrambi nel mantenere una relazione. Ma lì, a Byron Bay, sembrava che fosse il luogo più adatto per prendere una decisione.
Il faro in alto faceva da guardiano su tutta la baia a nord e a sud. In mezzo era incastonato il promontorio di un raro incanto che divideva il mare. Il nostro amore doveva decidere e, se fosse stato necessario, anche separarci. La vernice bianca su un pannello di legno, metteva in risalto la scritta “Punto più ad Est dell’Australia” e c’era una bella freccia proprio ad indicarci la strada.
Eravamo giunti titubanti fino a pochi metri dal faro, sembrava che fosse ormai un’inezia arrivare al “Punto” ma dall’alto, capii che il tragitto che avevamo compiuto, almeno cinque chilometri abbondanti, percorsi dapprima sulla spiaggia e poi su una strada desolata e malconcia, non era ancora la metà da percorrere. Ci tranquillizzammo una volta varcati i cancelli del parco che erano ancora aperti: avremmo avuto del tempo prima che il sole tramontasse. Rallentammo il cammino. Il freddo si mescolava al calore dei nostri corpi sudati e affaticati. Il fiato veniva a mancare non solo per l’erta ripida ma anche per il paesaggio che si impreziosiva di elementi naturali ad ogni passo. Le baie, la costa, la densa macchia di foresta marittima, le colline, i colori che diventavano più vividi più passava il tempo. L’emozione che ci impediva di parlare, cresceva nei nostri cuori. Ci tenevamo a distanza. Avevamo timore, probabilmente eravamo consci che quel paesaggio ci stava costringendo ad una scelta. Il cuore pulsava forte, forse sarebbe stato meglio non arrivare fino a quel punto, magari sarebbe stato più saggio tornare indietro. Ormai non mi interessava più arrivare al “punto più ad Est” e mi chiedevo se per caso non ci stessimo lasciando convincere da una necessità che ci obbligava alle nostre responsabilità. Prima di arrivare a Byron Bay, avevo sperato di raggiungere un mio personale record ma in quel tramonto sentivo che i miei desideri perdevano importanza di fronte al vero motivo che ci aveva portati in un punto tanto in là del globo terrestre. Adesso ero attratto da una forza maggiore di cui avevo ignorato la sua esistenza. Mi comandava la legge dell’amore, l’obbligo di lasciare libero chi non era ancora riuscito a darsi una ragione sul perché ci dovessimo ritrovare su un promontorio in mezzo al mare.
Spaziavo lo sguardo tutt’intorno, mi meravigliavo di quanto fossero belle le onde che si infrangevano sugli scogli, il mare, il sole che si imporporava all’orizzonte. La gioia e una malinconia si intrecciavano finemente. Non sapevo se godere del paesaggio oppure averne timore. C’erano il caldo e il freddo, lembi di cielo serenissimi e minacciose nuvole, la luce che scemava e l’oscurità che avanzava.
Dentro al cuore si insinuava la certezza che non me ne sarei andato da quel posto senza aver deciso e aver dato voce all’amore verso il quale, per un anno intero, mi ero mostrato sordo e sicuro di un futuro felice, convinzioni che si stavano rivelando sbagliate. Me ne rendevo conto poco alla volta, eccome se lo capivo! Mi sarei dovuto spogliare delle mie piccole verità per raggiungere la catarsi, per ritrovare la serenità persa lungo il cammino. Quell’amore mi urlava dentro, mi piegava, mi faceva bruciare il cuore.
Lo spazio immenso mi dava una piacevole sensazione di leggerezza. Mi sarei buttato tranquillamente a capofitto sui dolci declivi e sulle acuminate punte degli scogli. L’amore, già, l’amore…
Mi erano bastati solamente fedeltà e dedizione, impegno e serenità per sentirmi sicuro di me stesso. Mi ero però scordato che l’amore è comprensione e distacco, è capacità di accettazione e compassione. Nessuno di questi sentimenti avevo provato perché mi ero adagiato in una gioiosa sicurezza, noncurante delle insidie, delle trappole che una relazione a due porta inesorabilmente con sé. Avevo chiuso gli occhi e camminato per un anno con il mio “ego” bello e gonfio, sazio come un animale che non si cura più della propria sopravvivenza. Avevo il mio amore che mi camminava accanto, che seguiva i miei movimenti e che guardava con i miei occhi. Ma quell’amore, anch’esso affaticato e stanco, non era sereno. Anche se ormai c’era un’incomprensione di fondo, aveva deciso ugualmente di seguirmi fino a Byron Bay. Lo compresi lì, sul promontorio.
Avevo finalmente una visione di insieme del mio anno passato. Quante volte aveva riso o si era dedicato a ciò che gli aveva comandato il cuore? Già, quante? E io…, che cosa avevo fatto? Non avevo rinunciato a niente. Avevo mantenuto il mio posto di lavoro, mi ero interessato alle minime esigenze del vivere, mi ero lasciato intimorire dalle mille preoccupazioni quotidiane. All’inizio era stato tutto così sorprendente scoprire una dimensione nuova, una diversa prospettiva con una persona che aveva iniziato a camminare al mio fianco, che non avevo mai visto e avuto la possibilità di conoscere. L’amore mi si era presentato improvvisamente. All’inizio l’avevo accettato con un atteggiamento simile a colui che ritira il biglietto autostradale, lasciandolo in disparte e rimettendomi in cammino. Avevo accettato questo amore ma avevo anche consumato immediatamente futili promesse che non sarei riuscito a mantenere. Come avrei mai potuto abbandonare il mio lavoro, come avrei potuto permettere a me stesso di dimenticare il mio passato? Gioioso come ero allora, non ero riuscito a capire la portanza di simili promesse pronunciate a cuore aperto, mosso dalla foga di un momento, promesse che si erano levate nell’aria con la prima brezza e si erano disperse nelle minime gioie di abbracci e respiri ravvicinati. Mi ero subito messo in gioco, avevo iniziato a far spazio nella mia vita, ma avevo allo stesso tempo continuato nel mio cammino.
No, non avevo rinunciato a niente, avevo soltanto fatto un po’ più di posto per lasciare entrare quell’amore che, prima ancora si fosse presentato nella mia vita, mi stava già aspettando, muto e silente. Aveva avuto rispetto della mia persona per non so quanti mesi prima di mostrarsi. E io semplicemente l’avevo considerato come un diversivo rispetto alla monotonia della mia vita problematica e discutibile, farraginosa e mai un momento di sosta. Era arrivato a me con un semplice abbraccio mentre sprofondavo il capo tra le sue intime pieghe, piangendo lacrime sincere, senza dubbio, che però presto erano evaporate avendo trovato un appiglio al quale mi sarei potuto aggrappare tutte le volte ne avessi sentito l’esigenza. Così dopo le promesse e le lacrime, erano seguite anche le bugie. Perché egoista, perché avevo paura di mettermi in discussione non volendo apparire con una sola macchia, perché volevo offrire una limpidezza che sicuramente non possedevo e che non sarei mai riuscito ad avere. Eppure quell’amore non aveva desiderato altro che sincerità, discussione e mettersi in gioco. Ero caduto in mille contraddizioni fino a quando non era affiorata a galla la verità come latte raggrumato e cagliato. Il mio vero essere si era rivelato in trasparenza, più avevo tentato di nascondermi più mi ero allontanato da lui. Mi ero però sentito sempre felice, avendo soltanto come parametro il mio cuore colmo di piccola e meschina gioia. L’amore mi aveva reso tollerante nei confronti di tutte le persone con le quali lavoravo e verso me stesso; mi faceva apparire così lieve ogni problematica. Lo avevo inondato di prorompente e fragorosa allegria che, per carità, era sincera ma nel momento più inopportuno proprio quando lui desiderava lo salvassi, che gli tendessi la mano, che non mi addormentassi sfinito nel cuore della notte, momento più indifeso nel quale cercava la massima comprensione. Non ero riuscito a capire quanto dolore gli procurasse la mia insensibilità e quanta umiltà avesse nel cuore per accettarmi, per starmi accanto nonostante tutto. Il suo sorriso, intanto, si spegneva di giorno in giorno.
Avevo moltiplicato gli impegni, la serenità si era diluita nelle preoccupazioni del giorno, riacquistando l’arroganza, l’inquietudine, l’ansietà di emergere dal lavoro. Mi ero rimesso in competizione con chi lavorava con me e poco alla volta mi ero ritirato nel mio mondo, relegando l’amore ad una appendice della mia vita, importante ma sullo stesso piano degli altri interessi. Era di nuovo comparso il desiderio di viaggiare, di spaziare per mondi infiniti o nei cieli sempre più alti e sereni.
Il mio amore, invece, non era riuscito a starmi dietro ma forse non era il suo desiderio. La sua indole era più semplice, più amabile. Era stato accanto a me, sforzandosi di partecipare al mio entusiasmo ma alla fine non era riuscito a mettersi in sintonia coi miei pensieri. Aveva rinunciato agli amici, allo sport, allo studio. Si era perso nelle proprie insicurezze, nelle perenni indecisioni di chi non sa che cosa fare del futuro. Lo avevo spronato così coi miei ritmi, con le mie voglie e decisioni, senza fermarmi e adagiarmi e mettermi sulla sua lunghezza d’onda. Le differenze d’animo si erano fatte sentire dapprima con lievi dissensi e poi con vere e proprie laceranti discussioni. La maggior parte delle volte ero rimasto sempre in silenzio perché incapace di aprirmi ai suoi desideri e non ero mai riuscito ad entrare nella sua sfera intima.
Non mi ero analizzato con sincero interesse per mettere a nudo le mie debolezze che alimentavano il suo disagio. Mi ero però dedicato anima e corpo a lui, mi ero sforzato di vederlo tutti i giorni, di cucinargli da mangiare, di andarlo a prendere alla fine del lavoro, di farlo sentire più a suo agio, preparando dei dolci e accudendolo con la dovizia del migliore amante del mondo. Era vero, ma nel frattempo l’avevo lasciato morire, occupato dalle distrazioni della quotidianità, diffidenze e incapacità. Il cammino d’amore era andato avanti e le passioni e le emozioni si erano affievolite parecchio e avevano perso l’intensità dei primi giorni nei quali ogni cosa sembrava stupenda.
Eravamo giunti così a Byron Bay nel bene e nel male. Infelice il mio amore, io, ottuso e chiuso nelle serafiche convinzioni di aver agito per il bene di tutti, per noi stessi, per ogni cosa.
Dovevo ora regolare i conti e convincermi una volta per tutte che quell’amore, lo dovevo lasciar vivere, liberandolo o cercando una sintonia o un qualcosa del genere. Lo capivo proprio lì a Byron Bay confine ultimo di quel grosso continente. Sapevo che oltre non c’era più niente, a parte qualche isola. Avevo raggiunto l’ultima frontiera. Non potevo pretendere di arrivare in America quando l’avrei dovuta raggiungere dall’altra parte. E così era il mio amore. Non potevo forzare oltre per trovare l’eternità e la gioiosa sicurezza di un bene duraturo. Sapevo che l’amore sarebbe o finito o iniziato di nuovo, ma da un’altra parte. L’amore avrebbe dovuto prendere una decisione grave per essere di nuovo felice, per non avere impressa quella patina indelebile di tristezza.
Il faro era ormai dietro alle nostre spalle, la salita era praticamente finita. Ci aspettava adesso una ripida discesa quasi a picco sul mare per raggiungere quello scoglio limite estremo. Il calore scemava, adesso prendeva posto il freddo che pungeva e il vento che sferzava sbuffi rabbiosi sulle nostre facce paonazze. Mi voltai. Il promontorio era di una bellezza esagerata e si distingueva prepotente dal mare, dal cielo e da tutte le più piccole cose che riuscivo a percepire ad occhio nudo. Non potevo tornare indietro. Era passato un anno, ed era già troppo tempo.
Eravamo arrivati a Byron Bay incoscienti, ma adesso che avevamo percepito la gravità delle nostre decisioni, dovevamo necessariamente arrivare a termine e abbracciare le nostre responsabilità. L’atto ultimo stava lì, sotto ai nostri piedi, in mezzo al mare, dove le onde si infrangevano in vigorosi spruzzi. Quella piazzola delimitata da una recinzione di legno, sul mare, doveva essere il nostro “punto più ad Est” e da lì si poteva soltanto tornare indietro, di certo non si poteva andare avanti perché sarebbe stata una missione suicida.
Mi fermai, titubante, per riprendere fiato, per riorganizzare i pensieri, per cercare una parvenza di serenità. Osservai il sole che nel giro di poco tempo sarebbe tramontato. Era giallo più che mai e si infrangeva ormai sulle dolci colline in lontananza. Guardai il faro che sembrava giudicarmi, ligio e irremovibile. Mi asciugai le lacrime che si mescolavano al dolore. Ripresi lentamente, non avrei voluto bruciare la discesa inutilmente, mi sarei potuto fare male e non era proprio il caso. Volevo giungere al mio appuntamento integro senza dolore aggiunto.
Ce n’era già uno palpabile, lo sentivo entrare nelle viscere che mi attanagliava. Più muovevo i passi verso il basso più mi sentivo in colpa di essere stato così tanto cieco e insensibile.
Era possibile che fossi rimasto così distratto, che ancora una volta nella mia vita ero riuscito soltanto a mettere il pensiero di me stesso sopra ogni cosa? Era proprio vero che non avevo fatto nulla, che davvero fosse stata mia la colpa di quella decisione? Il pensiero di una probabile conferma mi faceva star male. Soprattutto perché quell’amore era stato il punto fermo sul quale avevo costruito tutto un anno intero.
Ero lì, a Byron Bay con la gravosa certezza di non essermi comportato nel migliore dei modi!
Avevo creduto di avergli lasciato spazio a sufficienza. Non avevo preso in considerazione l’egoismo che si era insediato giorno dopo giorno della nostra storia. Avevo spostato tutti i miei desideri e avevo messo l’amore sul loro stesso ripiano. Gli avevo dato sufficiente dignità, mettendolo nella mia personale vetrina di sogni ma non avevo compreso che non era un oggetto da ammirare, che avrei dovuto fare molto di più per tenerlo vivo. Avevo fatto finta di niente, mi ero semplicemente adeguato a una novità che mi si era presentata improvvisa, continuando a vivere come prima. Avevo creduto che quell’amore fosse immune da ogni cosa, da ogni pericolo perché perfetto e bello. Avevo cercato di non trascurare niente ma non avevo pensato che potesse morire. Ero fermamente convinto che un amore potesse durare eternamente e crescere con questi piccoli accorgimenti.
Invece non era così, me lo diceva l’amore stesso che avevo di fianco. Bastava semplicemente guardarlo con quel velo di tristezza e con quella espressione rassegnata di chi ha rinunciato alla sua vita per rimanere con me.
Prima di Byron Bay avevo creduto che il mondo fosse illimitato, ma adesso con quello scoglio in mezzo al mare, capivo che aveva un limite. Così anche l’amore. Bisognava soltanto capire dove si trovasse, aver chiara la certezza che se un amore può nascere, di certo non può svilupparsi in eterno. Mi ero sbagliato perché l’amore non è quasi mai uno sforzo, ma un gesto gratuito e ha la propria fisionomia e dei confini netti, a volte taglienti.
Era pur sempre il mio amore di una bellezza commovente, ma infelice per il momento.
Ora che mi trovavo in quel luogo, probabilmente il migliore di tutta l’Australia, meritatamente, dovevo decidermi se tornare indietro, ripercorrendo i giorni futuri con una nuova convinzione e la certezza che l’amore sarebbe stato limitato e che avrebbe avuto bisogno di crescere e di espandersi su un substrato benefico, oppure lasciarlo per guardare avanti e ricominciare un nuovo giro della mia vita. Ora che avevo preso la consapevolezza, che ero riuscito a dar voce al disagio interiore di un amore che stava soffocando, dovevo arrivare a una decisione che non avrei potuto prendere perché doveva essere libera da ogni egoismo. Ciò che avrei potuto fare, era recidere il legame col passato e lasciargli la libertà. Non avrei dovuto mettere di nuovo altre redini o altre costrizioni. Dovevo rinvasarlo in un terreno più fertile e sicuramente molto più spazioso. Se solo avesse deciso di continuare a crescere con me, sarei dovuto partire da questa considerazione, scevra da ogni mio desiderio. Non avrei potuto prendere una decisione. Se avessi scelto non sarei stato obiettivo e mi sarei lasciato comandare da desideri egoistici. Non avrei più voluto rimpianti futuri. Avrei rinunciato ad arrivare a Byron Bay se avessi avuto l’obbligo della scelta. Il destino mi conduceva diritto alla decisione e da questa non mi volevo di certo sottrarre. Non potevo tornare indietro. Da quella sera in poi il nostro amore avrebbe preso una nuova forma.
Il solo pensiero di perderlo definitivamente mi faceva stare male ma non dovevo essere egoista. L’amore era anche coraggio e rinuncia. L’egoismo dava le sue sferzate come una lama tagliente, proprio come le onde che cercavano di imporsi sul promontorio. Avrei voluto ribellarmi a questa consapevolezza e speravo che l’amore non rinunciasse a me. Promettevo ogni sorta di leccornia e di tentazione su un piatto d’argento pur di riuscire a riaverlo. Questi pensieri arrivavano ad ondate fino a farmi contorcere le dita di rabbia. Dovevo essere sereno. Non dovevo lasciare spazio ad altri desideri egoistici. Non era certamente facile convincersi che una decisione si sarebbe dovuta prendere in quel tramonto su Byron Bay. L’egoismo voleva impedirmi di provare sofferenza e farmi chiudere gli occhi.
Eppure quell’amore era infelice perché costringerlo ancora in una dimensione stretta e meschina? Non di certo avrei aperto io le gabbie, non avrei facilitato il compito della scelta. Almeno su questo l’egoismo sembrava non voler retrocedere. Avrei soltanto dato il mio consenso qualsiasi cosa avesse deciso, ma non avrei fatto niente per facilitare la scelta. Avevo raggiunto la consapevolezza ed ero arrivato al mio “Est” estremo. Ero a un punto cruciale della mia vita, di certo non per egoismo, ma grazie a tutti quei sogni che mi avevano stuzzicato e mi avevano spronato ad andare avanti, a raggiungere ogni giorno un confine sempre più lontano.
Così rallentavo il passo in prossimità del confine ultimo. Lo spazio aperto si racchiudeva attorno a quello scoglio contro cui la rabbia delle onde aumentava di intensità. Iniziai a provare paura, non volevo raggiungere quel punto. Il limite non era intrinseco alla mia persona, io ci avrei pure messo la volontà per raggiungere il continente americano attraversando l’oceano. Avrei sfidato mille tempeste e mille isole e mille scogli e mille solitudini. Ma il limite c’era. Era innegabile.
Non potevo pretendere di ottenere ciò che non potevo avere. Provai freddo, un brivido gelato mi percorse la schiena. Un conato di vomito mi sopraffece. Ecco che stavo somatizzando il dolore, quel dolore che affiorava sulla pelle. Non mi interessava più il paesaggio, il sole, il mare, il cielo. Mi sarebbe bastato raggiungere lo scoglio e basta, il mio compito sarebbe finito lì. Dovevo solo toccarlo e mi sarei potuto chiudere a guscio e diventare insensibile. Avrei avuto tutto il tempo per vomitare, per dannarmi, per ingiuriare il cielo contro un destino alle volte davvero ingrato verso le nostre esigenze. Ci sarebbe stato tanto tempo per domandarsi, per accusarsi, per trovare un alibi e un capro espiatorio. Mi si prospettavano giorni tristi con un sapore amaro in bocca, con la tristezza di un probabile addio non voluto né cercato. Sapevo bene che giorni mi sarei dovuto aspettare da quel momento in poi. Non potevo di certo accusare il mio amore. Che fosse colpa mia o meno, non era importante saperlo in quel momento. Dovevo soltanto raggiungere il bordo dell’amore e aver la forza di percepirne il contenuto fisico. Non mi sarei dovuto opporre a qualsiasi responso. Mi raggomitolavo per quel che potevo in me stesso e avanzavo lentamente come un automa.
O finiva o andava avanti, l’amore. Sapevo però perfettamente che decisione avrebbe preso. Lo sapevo.
Quando si arriva al “punto più ad Est” della propria vita, ben difficilmente ci possono essere diverse soluzioni. L’amore poteva soltanto andare da una parte. Era poco probabile che mi sarebbe rimasto accanto.
Il cielo alle mie spalle era un tripudio di rosso e colori accesi, una vera emozione, davanti a me, invece, diventava di colore nero, come la pece. Avanzai lentamente come se fossi incapace di andare avanti.
“The most easterly point of Australia”: era lì davanti a me. Arrivai nel centro. Sentivo le gocce delle onde che si nebulizzavano contro le rocce, spruzzandomi mille goccioline. Ecco quello che mi si prospettava, un’immersione totale nel profondo della mia coscienza, aspettando il responso.
Il faro si era acceso, il fascio di luce penetrava in profondità nel buio. Il mio amore mi stava lì accanto. Dovevo soltanto aspettare, spogliarmi della mia presunta felicità e rialzarmi con una nuova consapevolezza, che fosse rimasto o meno. Non avrei mosso un dito, anzi mi sarei seduto sullo scoglio e avrei aspettato.
Mi allontanai da lui e mi rannicchiai in me stesso. L’acqua era gelida e il mio corpo si stava rapidamente raffreddando. Guardavo oltre gli scogli. Era tutto buio. In fondo da qualche parte c’era l’America. La luce del faro mi regalava illusori istanti nei quali cercavo di intravedere oltre quel nero che la vista percepiva, ma niente di più. Non era il momento di sognare e pensare di andare avanti, anzi dovevo lasciare che il destino mettesse in ordine l’intreccio delle nostre vite che era divenuto così intimo.
Eccomi al punto estremo di un continente, al limite di una decisione. Non potevo andare oltre. Avrei voluto gioire per aver raggiunto il mio record personale nell’essere arrivato tanto in là nel mio planisfero di sogni e di desideri. Sarebbe stato meraviglioso andare oltre ma per il momento ero arrivato alla fine della mia affannosa ricerca di mondi da scoprire. I sogni hanno un prezzo elevato, ma l’amore ancora di più. E non potevo di certo considerarmi così ricco interiormente da realizzare i sogni e coltivare l’amore. Non avrei retto e se comunque avessi continuato, mi sarei dovuto aspettare che l’amore morisse o che i sogni inesorabilmente si infrangessero. Non potevo pretendere di far sopravvivere due esigenze così opposte nella mia vita. L’amore innanzitutto doveva vivere autonomamente e raggiungere il proprio personale “Est” e solo allora avrei potuto pensare ai miei sogni con o senza di esso. Era una condizione ineluttabile ma estremamente vera.
Avevo sempre pensato che bastasse il solo sentimento dell’amore per vivere con sicurezza i propri sogni. Mi rendevo conto che non era così. No, perché sono due forze estreme che divorano energia entrambe e quando si raggiunge la fine, bisogna avere la serenità e il coraggio di lasciarsi condurre dal destino e ricominciare a sognare. Per ora dovevo soltanto dare spazio a quell’amore che aveva iniziato a camminare con me su quella via che ci aveva condotto all’Est estremo con incoscienza, con gioiosa serenità, ma infelice. Non potevo continuare a fare finta di niente.
Era necessario arrivare a Byron Bay per mettere in discussione l’amore, per capire che se non voleva essere limitato doveva necessariamente arrivare ad una realizzazione interiore e non ad un “Est” esteriore. Avevo pensato di essere felice, ma adesso avevo il vuoto davanti. Il cuore non reggeva all’emozione. L’amore avrebbe scelto. La forza della decisione sotto il cielo plumbeo e rosso, con il faro puntato tra le onde dell’ignoto, mi schiacciava. Non avevo altre vie di scampo. Raccolsi i miei pensieri e mi strinsi nelle spalle. Avevo raggiunto l’Est ma non l’amore che avrebbe dovuto trovare la propria realizzazione di certo non a Byron Bay.
Mi inginocchiai e allungai la mano nell’acqua. Avevo preso piena coscienza dei miei errori, quel percorso dapprima in salita e poi in discesa mi aveva preparato ad accettare qualsiasi decisione. Ero arrivato al punto di non ritorno. Se non volevo morire e distruggere quell’amore, dovevo limitare i miei sogni e dimenticare che avevo raggiunto il mio record personale. Avrei avuto tutto il tempo per gioirne ma in quel momento dovevo essere perfettamente libero da ogni esigenza e da ogni sogno. Dovevo avere il coraggio di accettare serenamente la scelta. Se era vero che ero stato felice fino a quel momento, allora dovevo dimostrarlo, a maggior ragione nel “punto più ad Est dell’Australia”. Non potevo imbrogliare le carte in tavola.
Ero stato felice? Me lo chiedevo con forza stringendo i pugni. E la risposta era meravigliosamente sì, perché la sentivo assurgere dentro di me come una certezza, come una sicurezza di cui non avevo mai provato a saggiarne la consistenza. Non avevo nessun rimorso, nessun rimprovero. Guardavo dentro al cuore e vi scorgevo una limpidezza che non avevo mai visto. C’erano tutti gli altri casini, il lavoro, la fatica quotidiana, i piccoli problemi che non mi avevano gratificato e mille altre problematiche, ma il “core” centrale era fermo e limpido. Il mio amore era quel nucleo che non era stato scalfito da nessun altro problema. Sicuramente non sarei mai riuscito ad arrivare al “punto più ad Est dell’Australia” senza quella sicurezza. Certamente l’amore era infelice ma il mio essere non aveva mai vissuto così stabilità come nell’anno appena passato. Vi potevo vedere la granitica certezza dell’amore così come lo splendore del paesaggio nonostante la tempesta che stava sopraggiungendo.
Guardai il mio amore con le lacrime agli occhi. Lo fissai per minuti interi senza la minima fretta, non provando caldo né freddo. Intensamente, per condividere il suo dolore e per farmi coraggio.
Il tempo si fermava, così la luce del faro e il tramonto. In quel crepuscolo dovevamo distinguere ancora le nostre certezze prima che le tenebre prendessero il sopravvento. Era così semplice. Non avevo paura, ero tanto in là dal mio mondo e dalle mie meschinità. Non avevo più confini, davvero mi sentivo perfettamente libero. Non mi avrebbe fermato niente, non venivo attirato da nessun istinto. Avevo raggiunto la libertà e avevo lasciato da parte ogni sussulto di cuore, ogni incertezza. Avevo di fronte l’infinito da una parte e l’amore dall’altra. Ecco, mi trovavo a metà tra il caldo del tramonto e il freddo della tempesta. Ero arrivato lì da solo con i miei sogni e il mio amore che mi aveva seguito fedele passo dopo passo. Sarebbe potuto piovere quanto avessero voluto gli dei, ma ero libero. La forza interiore mi dava serenità.
Non dovevo avere paura di perdere l’amore, né di affogare nell’oceano. L’oriente mi avvolgeva, non avevo nessun legame col mondo. Le onde lambivano i piedi. Ero libero dai sogni e dall’amore. Ero semplicemente al “punto più ad Est”.
L’amore era incerto davanti a me. Non voleva andarsene ma neanche rimanere. Non potevo dire niente, dovevo lasciare che decidesse nella più piena consapevolezza. Abbozzai un sorriso, mi alzai fiero, sfidando il vento e le onde. Dovevo essere io stesso faro della mia vita. Sentivo salire dal di dentro un’euforia e iniziai a canticchiare e a saltellare. La pioggia incominciò un diluvio e ben presto mi bagnai completamente. Iniziai una danza goffa, primitiva senza alcun senso del ritmo. Non avevo mai capito niente dell’armonia musicale, non l’avevo mai avuta nel sangue. Ero dotato di un ottimo senso pratico, ma non riuscivo a seguire una musica con il semplice movimento del corpo. Mi mossi ugualmente. Alzai le braccia e presi a roteare su me stesso, ebbro e felice. Dovevo dirlo al mondo intero che avevo raggiunto l’Est. Dominavo il mondo da quello spiazzo nell’oceano così come il faro che dominava su tutta la baia. Le braccia si levarono alte, quasi a voler toccare il cielo e le nuvole. La maglietta si inzuppava di pioggia. Febbricitante dei miei pensieri, della mia gioia di un anno passato, mi lasciavo andare, sprigionavo dal corpo la mia gioia che altro non era che felicità acerba, imperfetta, pur sempre felicità.
L’amore doveva scegliere, decidere. E io danzavo con me stesso sullo scoglio. Stavo portando a termine il mio rito propiziatorio per dare il consenso e venivo accolto dall’acqua del mondo che si confondeva nel mare. Il dolore veniva lavato via, mi sentivo felice per essere riuscito ad arrivare ad “Est” ma anche per aver portato il mio amore fino a quel punto. Mi sentivo fiero e orgoglioso. Apprezzavo il cielo, il paesaggio, l’amore e la tempesta. Il cuore traboccava di gioia. Mi drogavo delle mie stesse sensazioni, della consapevolezza di aver dato respiro all’amore. Mi fermai di colpo e mi guardai attorno. Non vidi nessuno, mi trovai in un attimo nella più sconvolgente solitudine. L’amore, eccolo, in fondo che si stagliava contro quel barlume rossastro che si stava spegnendo lentamente. Tesi le braccia verso quel puntino che si allontanava e mi lasciai cadere sulle ginocchia, rannicchiandomi fino a sfiorare il terreno. Avevo raggiunto il mio “Est” personale…